Con l’avvento di catene di abbigliamento low cost non ci sono più̀ limiti di stagione: in un anno ci sono 52 settimane e, di conseguenza, 52 settimane della moda.
La fast fashion è un modello di business che si basa sulla estrema riduzione dei cicli temporali, dalla produzione al consumo. É un fenomeno attuale tra i settori commerciali di maggior successo dall’inizio del millennio. Si tratta di moda pensata per un consumo rapido e a basso costo. Eppure, il costo per l’ambiente non è così a buon mercato…
In media, nel suo breve ciclo di vita, un indumento della fast fashion produce emissioni inquinanti in ogni fase della lavorazione: quella di produzione delle fibre causa il 18% delle emissioni di gas totali prodotte dall’industria manifatturiera, quella dei filati il 16% e quella di utilizzo da parte del consumatore (lavaggio, asciugatura e smaltimento) il 39%.
Le fibre sintetiche, come il nylon, l’elastan e il poliestere hanno gli effetti peggiori sull’ambiente: in quanto materiali plastici, derivano dal petrolio e per la loro produzione il settore dell’abbigliamento utilizza 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili.
La fibra naturale più utilizzata è il cotone e richiede circa 11.000 litri d’acqua ogni chilo di materiale, 2.700 litri in media per una normale t-shirt. Inoltre, i terreni per la coltivazione del cotone vengono trattati con fertilizzanti, pesticidi e altre sostanze chimiche potenzialmente pericolose per la salute dei lavoratori. Il cotone biologico, a prima vista, sembrerebbe un’alternativa sostenibile, ma rappresenta solo l’1% della produzione mondiale.
Nonostante possa presentarsi come un paradiso per i consumatori, questo modello di business è potenzialmente pericoloso e distruttivo. Inoltre, le aziende che utilizzano la strategia di produzione rapida scelgono di spostare i propri stabilimenti produttivi nei paesi in via di sviluppo, dove i diritti dei lavoratori sono assenti, dove non è previsto alcun tipo di smaltimento dei rifiuti e non esistono strutture idonee per lo scarico di effluenti. Per esempio, molte fabbriche in Bangladesh scaricano nei fiumi sostanze chimiche come coloranti e soluzioni caustiche provocando un grave danno ambientale. Inoltre, la maggioranza della forza lavoro è femminile, sottopagata e costretta a lavorare in pessime condizioni. Non ultimo lo sfruttamento intensivo del lavoro minorile spinto a turni di lavoro estenuanti.
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