Lo spreco alimentare è subdolo, nasconde la sua vera portata. O meglio la “incorpora” tenendocela nascosta. Secondo la FAO ogni anno si perde o si spreca 1/3 di tutto il cibo prodotto sul pianeta. Ma la questione non riguarda solo il cibo che finisce in discarica. Con la nostra bistecca andata a male, infatti, finisce in discarica anche un terzo di tutta l’acqua utilizzata per produrre cibo – secondo Water footprint network, ad esempio, la produzione animale mondiale richiede oltre 2 mila miliardi di metri cubi di acqua all’anno. E ancora secondo la FAO gli sprechi alimentari legati alla sola agricoltura sono responsabili della dispersione di 253 Km3 di acqua potabile. Col nostro pane secco finisce nella pattumiera anche un terzo dell’energia impiegata per pompare l’acqua sui campi, di quella per la lavorazione e il trasporto dei prodotti: tutto in discarica. Il WWF ci ricorda che il 90% della deforestazione globale è dovuta all’espansione dei terreni agricoli a discapito di altri usi del suolo. Bene, un terzo di questa espansione è servito a produrre le portate che abbiamo gettato nel bidone della spazzatura. Gli scarti alimentari, quando finiscono in discarica, fermentano e producono metano (potere climalterante 20 volte maggiore della CO2): la Commissione europea ha stimato che il 3% del totale dei gas climalteranti continentali viene proprio dalla fermentazione nelle discariche. E secondo la FAO il 6% delle emissioni di gas serra globali sono legate allo scarto alimentare. “Se la perdita e lo spreco di cibo fosse un paese, sarebbe la terza più grande fonte di emissioni di gas serra al mondo”, scrive Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP (United Nations Environment Programme) nell’introduzione del Food Waste Index Report 2021, presentato nel marzo dello scorso anno. Per non dire di tutti i pesticidi che avremmo potuto non disperdere nell’ambiente.
In occasione Giornata nazionale dedicata alla prevenzione, vi accompagniamo in un viaggio nel mondo dello spreco alimentare.
Innanzitutto è necessario fare una distinzione. La FAO propone una diversa classificazione a seconda del punto della filiera in cui avviene lo spreco. La perdita alimentare (food loss), secondo la definizione della Food and Agricolture Organization, è lo spreco lungo i primi anelli della catena (produzione, raccolta, stoccaggio e lavorazione) dei prodotti per il consumo umano. Lo spreco (food waste) si verifica invece negli ultimi anelli, a livello del commercio e del consumo.
Secondo il Food Loss Index della FAO (dati riferiti al 2016) sul pianeta, nelle fasi che vanno dalla produzione fino alla vendita al dettaglio esclusa, si perde il 13,8% degli alimenti prodotti per l’uomo. Con una variabilità geografica che passa dal 20,7% dell’Asia centrale al 15,5% statunitense ed europeo al 5,8 dell’Australia. E un valore economico di 400 miliardi di dollari in fumo ogni anno.
Il Food Waste Index Report dell’UNEP, in modo complementare rispetto alla FAO, si concentra sulle fasi della filiera successive alla produzione primaria (appunto waste e non loss): quindi sugli scarti che si verificano a livello domestico, di ristorazione e di vendita al dettaglio. L’UNEP stima lo spreco di cibo attorno al 17% della produzione alimentare globale. 931 milioni di tonnellate ogni anno (dati relativi al 2019): il 61% proviene dalle famiglie (74 kg pro capite l’anno), il 26% dalla ristorazione (32 kg pro capite/anno) e il 13% dalla vendita al dettaglio (15 kg). Quasi 570 milioni di tonnellate di questi rifiuti hanno origine a livello domestico.
Fino alla pubblicazione dell’ultimo report dell’UNEP si riteneva ci fosse una differenza, nella produzione di scarti, tra Paesi industrializzati e Paesi a basso reddito. Mentre nei primi la maggioranza dei rifiuti alimentari ha origine nelle fasi di retail e soprattutto di consumo, ed è quindi legato principalmente al ruolo del consumatore, nei Paesi a reddito più basso, questo era l’assunto, la maggior parte degli scarti avviene nelle prime fasi della catena alimentare, soprattutto per la mancanza di tecnologie e strumenti per una produzione e una conservazione efficiente. Solo una parte minoritaria arriva dai consumatori.
UNEP ha invece smentito questa tesi nono sostenuta da dati sufficientemente solidi. Mediamente ad ogni essere umano corrispondono 74 chilogrammi l’anno di rifiuti alimentari “senza grandi differenze, come invece si credeva in precedenza, tra Paesi a reddito medio-basso ai Paesi ad alto reddito”, spiega il report: “Le stime precedenti dello spreco alimentare dei consumatori ne sottovalutavano significativamente la portata. Sebbene i dati non consentano un solido confronto nel tempo, lo spreco alimentare a livello di consumatore (domestico e ristorazione) sembra essere più del doppio della precedente stima FAO”.
Dunque “non è vero che nei Paesi in via di sviluppo non si spreca, anzi, è emerso uno spreco rilevate nella fase di consumo”, commenta Clara Cicatiello, docente del Dipartimento per l’Innovazione dei sistemi biologici, agroalimentari e forestali (DIBAF) dell’Università della Tuscia, ricercatrice i cui studi sulla grande distribuzione sono riconosciuti altamente affidabili dall’UNEP: “Questo è stato forse il risultato più clamoroso del report. Probabilmente dovuto ad una ‘occidentalizzazione’ dei consumi: man mano che i Paesi crescono a livello economico tendono ad imitare stili di consumo insostenibili come in nostri”.
E questa occidentalizzazione non sembra destinata a ridursi. Secondo Boston Consulting Group, da qui a 8 anni gli sprechi alimentari aumenteranno del 40%: nel 2030, stima l’istituto di consulenza statunitense, getteremo via oltre 2 miliardi di tonnellate di cibo all’anno, per un valore di 1,5 trilioni di dollari.
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di Daniele Di Stefano
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