Quando a Ottawa, Canada, il 23 notte si chiude la quarta sessione del Comitato intergovernativo di negoziazione per il trattato internazionale giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica (INC-4), Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), afferma che gli obiettivi della vigilia di questa sessione di lavoro sono stati raggiunti: ma sono obiettivi minimali, progressi quasi impercettibili se commisurati al percorso ancora da fare per arrivare all’obiettivo. “Siamo venuti a Ottawa per far avanzare il testo e con la speranza che i membri si accordino sul lavoro intersessionale necessario per compiere progressi ancora maggiori in vista dell’INC-5”, ha detto: “Lasciamo Ottawa avendo raggiunto entrambi gli obiettivi e avendo davanti a noi un percorso chiaro per raggiungere un accordo ambizioso a Busan”. Ma “il lavoro, tuttavia, è tutt’altro che finito. La crisi dell’inquinamento da plastica continua a travolgere il mondo e mancano pochi mesi alla scadenza di fine anno concordata nel 2022. Esorto i membri a mostrare un impegno costante e una certa flessibilità per raggiungere la massima ambizione”. Ad incrociare questa dichiarazione con quelle delle associazioni ambientaliste e con le iniziative dei Paesi più sinceramente impegnati per un trattato robusto dovremmo parlare forse di ottimismo della volontà. A Ottawa, infatti, non ci sono stati progressi reali sul testo del trattato, non sulle parti rilevanti che riguardano un tetto alla produzione, limiti al monouso, un bando per gli additivi pericolosi, i finanziamenti per gestire la crisi globale della plastica. E, stando a diverse ricostruzioni, anche i Paesi più motivati, quelli riuniti nella High Ambition Coalition, alla prova dei fatti non hanno spinto l’acceleratore con convinzione.
Quanto al lavoro intersessionale, si tratta delle “riunioni di esperti” che si svolgeranno prima dell’ultima sessione ufficiale dell’INC (INC-5, dal 25 novembre al 1° dicembre 2024 a Busan, Repubblica di Corea: ricordiamo che il mandato dell’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente è concludere i lavori entro il 2024): difficile che degli esperti spianino la strada senza quel mandato politico di cui a Ottawa si è patita la mancanza. Il rischio, paventato alla vigilia di INC-4, è che si porti sì a casa un risultato, ma un risultato a ribasso: un trattato che guardi al problema plastica solo nelle ultime fasi dei ciclo di vita (la gestione dei rifiuti) piuttosto che coinvolgere anche la produzione dei polimeri, il design dei prodotti, l’uso degli additivi.
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L’elefante nelle stanze che hanno visto al lavoro oltre 2.500 delegati rappresentanti 170 Paesi è la limitazione alla produzione di plastica vergine. Come abbiamo già raccontato alla partenza dei lavori di Ottawa, uno zoccolo duro di Paesi legati economicamente ai combustibili fossili (come Arabia Saudita, Russia, Iran, Cina) ha fatto muro rispetto a questa ipotesi. Secondo Joan Marc Simon, Fondatore e direttore di Zero Waste Europe, se “è positivo che siano stati fatti alcuni passi avanti sui prodotti in plastica, il design, la riutilizzabilità e la riciclabilità”, tuttavia, “il tema più critico, la necessità di ridurre la sovrapproduzione, è stato sempre messo da parte”. Graham Forbes, capo delegazione di Greenpeace ai negoziati e responsabile della campagna Global Plastics di Greenpeace USA, ha dichiarato: “Il mondo sta bruciando e gli Stati membri stanno perdendo tempo e opportunità. Abbiamo assistito a qualche progresso, favorito dai continui sforzi di Stati come il Ruanda, il Perù e i firmatari della dichiarazione Bridge to Busan, che hanno spinto a ridurre la produzione di plastica. Tuttavia, sono stati fatti dei compromessi sul risultato che non hanno tenuto conto dei tagli alla produzione di plastica, allontanandoci ulteriormente dal raggiungimento di un trattato che la scienza richiede e la giustizia esige”.
Forbes accenna alle due due iniziative più rilevanti avvenute in Canada. La prima è stata la proposta congiunta di Ruanda e Perù – sostenuta nella plenaria del penultimo giorno da oltre 50 Stati membri – per stabilire l’obiettivo “40X40”: riduzione del 40% la produzione rispetto al 2025 entro il 2040.
L’altra è “The Bridge to Busan Declaration”, una reazione allo stallo nei negoziati sottoscritta da 33 Paesi (non l’Italia) per sottolineare che “l’intero ciclo di vita della plastica comprende la produzione di polimeri plastici primari”. In questo manifesto si ricorda che “gli studi dimostrano che il mondo non potrà raggiungere gli obiettivi di porre fine all’inquinamento da plastica e di limitare l’aumento della temperatura media globale a meno di 1,5° Celsius se non si affronta il problema della produzione insostenibile di polimeri plastici primari”. I 33 firmatari chiedono a tutti i Paesi di “impegnarsi a raggiungere livelli sostenibili di produzione di polimeri plastici primari”. Chiedono un “accordo su un obiettivo globale relativo alla produzione sostenibile di polimeri primari di plastica” che “può comprendere il congelamento della produzione a livelli specifici, riduzioni della produzione rispetto a valori di riferimento concordati o altri vincoli concordati per prevenire la produzione non sostenibile di polimeri primari di plastica”. Insomma un tetto, in forme da stabilire, alla produzione.
“Fin dall’inizio dei negoziati, sappiamo che è necessario ridurre la produzione di plastica per adottare un trattato all’altezza delle promesse fatte all’UNEA due anni fa. A Ottawa, abbiamo visto molti Paesi affermare, a ragione, che è importante che il trattato affronti la produzione di polimeri plastici primari”, ha commentato David Azoulay, Center for International Environmental Law (CIEL): “Ma per tutta la settimana abbiamo visto molti membri della High Ambition Coalition, compresa l’Unione Europea, abboccare all’amo [dei Paesi che frenano l’accordo]. L’ipocrisia è stata evidente anche nelle posizioni di presunti leader come gli Stati Uniti”.
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