Immagini come quella del great pacific garbage patch, l’immensa isola di plastica grande quanto la penisola Iberica situata nell’oceano Pacifico, sono il simbolo dell’inquinamento marino della plastica che sta ricevendo grande attenzione dal sistema mediatico e da organizzazioni ambientalisti. Quello di cui si parla poco, però, è l’impatto – altrettanto dannoso – che hanno le microplastiche sul suolo, con gravi conseguenze sulla vita di piante, animali e degli stessi esseri umani.
Pochissima della plastica che scartiamo ogni giorno viene riciclata o incenerita negli impianti di termovalorizzazione. Gran parte di essa finisce nelle discariche, dove potrebbero essere necessari fino a 1.000 anni per decomporsi, liberando sostanze potenzialmente tossiche nel suolo e nell’acqua.
I ricercatori del Leibniz-Institute of Freshwater Ecology and Inland Fisheries avvertono che l’impatto delle microplastiche nel suolo, nei sedimenti e nell’acqua dolce potrebbe avere un effetto negativo a lungo termine su questi ecosistemi. Secondo lo studio An underestimated threat: Land-based pollution with microplastics, l’inquinamento terrestre da microplastica è stimato da 4 a 23 volte superiore a quello marino.
Lo studio stima che un terzo di tutti i rifiuti di plastica finisca nel suolo o nell’acqua dolce. Inoltre la maggior parte di questa plastica si disintegra in particelle più piccole di cinque millimetri e queste si scompongono ulteriormente in nanoparticelle (di dimensioni inferiori a 0,1 micrometri). Un altro grande problema è che queste particelle stanno entrando anche nella catena alimentare. I ricercatori hanno concluso che, sebbene siano state condotte poche ricerche in questo campo, i risultati fino ad oggi sono preoccupanti: i frammenti di plastica sono presenti praticamente in tutto il mondo.
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Nel 2020 è stato pubblicato per la Royal Society il primo studio che ha scoperto come la presenza di microplastiche può influenzare la fauna del suolo. Il documento sostiene che l’inquinamento da microplastica terrestre ha portato alla diminuzione delle specie che vivono sotto la superficie, come acari, larve e altre minuscole creature che mantengono la fertilità della terra. “I lombrichi, ad esempio, creano le loro tane in modo diverso quando sono presenti microplastiche nel terreno, influenzando la forma fisica del lombrico e le condizioni del suolo”, afferma un articolo su Science Daily.
Un altro aspetto rilevante è la tossicità delle materie plastiche. La plastica clorurata – che indica un polimero del monomero di cloruro di vinile che contiene il 67% di cloro ed è normalmente identificato con CPVC – può rilasciare sostanze chimiche dannose nel terreno e può quindi infiltrarsi nelle acque sotterranee o in altre fonti d’acqua circostanti. Questo può causare una serie di effetti potenzialmente dannosi sulle specie che bevono l’acqua. In generale, quando le particelle di plastica si rompono, acquisiscono nuove proprietà fisiche e chimiche, aumentando il rischio che abbiano un effetto tossico sugli organismi. Maggiore è il numero di specie e funzioni ecologiche potenzialmente interessate, più è probabile che si verifichino effetti tossici, impattanti anche sulla biodiversità.
Gli effetti chimici sono particolarmente problematici nella fase di decomposizione. Additivi come ftalati e bisfenolo A (ampiamente noto come BPA) fuoriescono dalle particelle di plastica e possono alterare il sistema ormonale di vertebrati e invertebrati. Inoltre, particelle di dimensioni nanometriche possono causare infiammazione, attraversare le barriere cellulari e persino attraversare membrane altamente selettive come la barriera ematoencefalica o la placenta. Tra le altre cose, possono innescare cambiamenti nell’espressione genica e reazioni biochimiche all’interno della cellula.
di Simone Fant
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