“I soldi ci sono, spendiamoli presto e bene”. L’auspicio con il quale il premier Mario Draghi chiude il G20 a guida italiana è probabilmente l’unica buona notizia del vertice dei capi di stato e di governo che si è tenuto a Roma il 30 e il 31 ottobre. Specie se si pensa che il foro internazionale annuale che riunisce le principali economie del mondo – i Paesi che ne fanno parte rappresentano più del 80% del PIL mondiale, il 75% del commercio globale e il 60% della popolazione del pianeta – ha introdotto lo svolgimento del vertice finale dal 2008, all’indomani della crisi finanziaria che segnò anche l’avvio delle politiche di austerità. Ora, invece, la fase attuale è (o sembra) espansiva. E a farne le spese, letteralmente, potrebbe essere finalmente la crisi climatica, con gli Stati che in occasione della COP26 – la conferenza annuale dell’Onu sul clima che è si è appena aperta a Glasgow – potrebbero finalmente decidere di investire le risorse necessarie. In realtà la questione essenziale è proprio questa: non c’è più tempo per speranze ed auspici, serve agire, e in fretta. Ecco perché i motivi per parlare di fallimento del G20 a guida Draghi sono più numerosi delle buone notizie.
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Prima di addentrarci nell’analisi degli esiti romani vale la pena guardare a chi aveva saputo indicare una possibile rotta. Diceva Alexander Langer che bisogna rendere desiderabile la sostenibilità. Già nel 1994 il noto ambientalista e pacifista dell’Alto Adige scriveva, in un famoso articolo, che “la domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta”. Il monito di Langer è tremendamente attuale. “La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli – aggiungeva Langer – e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario”.
È proprio questo il punto che raramente viene affrontato: a desiderare quella che oggi chiamiamo transizione ecologica sono in pochi, mentre la maggioranza della popolazione vive in uno stato a metà tra l’accidia e l’ignoranza, incapace anche solo di immaginare altri modi e altri mondi che non siano legati all’economia lineare.
“Né singoli provvedimenti, né un migliore “ministero dell’ambiente” né una valutazione di impatto ambientale più accurata né norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile” scriveva ancora Langer, che in questo passaggio pare davvero profetico e anticipa di quasi tre decenni la trasformazione del ministero dell’ambiente in ministero della transizione. Di una decisa rifondazione non c’è traccia nel documento finale partorito dai potenti della terra. Nè, tantomeno, si fa riferimento a cambi di paradigma. Si insegue l’emergenza, insomma, e senza neppure impegni vincolanti.
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“In cosa siamo riusciti? È un summit di successo nel senso di mantenere vivi i nostri sogni, impegnarci a ulteriori provvedimenti, stanziamenti di denaro, ulteriori promesse di riduzione”. In questa frase del premier Mario Draghi nella conferenza stampa post-G20 c’è tutto il senso di un vertice che, come tanti altri in passato, continua a rinviare le soluzioni nell’incapacità di mettere tutti d’accordo. Non solo alle azioni si preferiscono gli impegni, ma questi risultano pure generici e senza date precise.
C’era molta attesa sui temi ambientali e climatici, in vista della Cop26 di Glasgow. Ma le premesse romane non lasciano ben sperare sugli esiti scozzesi. Nel documento finale del G20 di Roma i grandi della Terra non riescono neppure a mettersi d’accordo su una data per il raggiungimento delle emissioni zero. Finora era il 2050 l’orizzonte temporale sul quale gli Stati avevano provato a convergere – con la notevole eccezione della Cina, che l’aveva spostato per sé al 2060 – per provare ad attenuare la crisi climatica in corso attraverso un azzeramento delle emissioni di gas serra, da raggiungere in 30 anni. Oggi, invece, quell’orizzonte temporale, già ampiamente problematico e contestato dagli ambientalisti e dalle ong, viene ulteriormente sfocato con l’inusuale formula “entro o intorno la metà del secolo”.
L’unico passo avanti concreto è legato al carbone: i governi non finanzieranno più nuove centrali all’estero alimentati da questa fonte fossile. Ma potranno continuare a farlo sui loro territori, con Stati come la Cina (dove il 63% dell’energia elettrica deriva dalle centrali a carbone) e l’India disseminati sempre più di impianti che sarà molto difficile dismettere. Viene poi ribadito l’impegno di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, anziché 2 gradi, ma si tratta sostanzialmente della riproposizione dell’Accordo di Parigi della Cop21, firmato nel 2015. In questi sei anni, intanto, la crisi climatica si è notevolmente aggravata, l’intero globo è stato (ed è) pervaso da una pandemia, ed è partita una crisi delle materie prime che promette di essere la prima di una lunga serie. Insomma: i segnali per attendersi di più c’erano, bastava coglierli.
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di Andrea Turco
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